Natura del sacrificio

Il termine sacrificio deriva dal latino sacrificium, che è una combinazione delle parole sacer, che significa qualcosa separato dal secolare o profano per l’uso di poteri soprannaturali, e facere, che significa “fare”. Il termine ha acquisito un uso popolare e spesso secolare per descrivere una sorta di rinuncia o di abbandono di qualcosa di valore al fine di ottenere qualcosa di più prezioso; ad esempio, i genitori fanno sacrifici per i loro figli, uno sacrifica un arto per il proprio paese. Ma l’uso originale del termine era peculiarmente religioso, riferendosi a un atto cultuale in cui gli oggetti erano messi da parte o consacrati e offerti a un dio o a qualche altro potere soprannaturale; così, il sacrificio dovrebbe essere inteso all’interno di un contesto religioso, cultuale.

La religione è la relazione dell’uomo con ciò che egli considera sacro o santo. Questo rapporto può essere concepito in una varietà di forme. Sebbene la condotta morale, la giusta credenza e la partecipazione alle istituzioni religiose siano comunemente elementi costitutivi della vita religiosa, il culto o l’adorazione è generalmente accettato come l’elemento più basilare e universale. Il culto è la reazione dell’uomo alla sua esperienza del potere sacro; è una risposta in azione, una donazione di sé, specialmente attraverso la devozione e il servizio, alla realtà trascendente da cui l’uomo si sente dipendente. Il sacrificio e la preghiera – il tentativo personale dell’uomo di comunicare con la realtà trascendente con la parola o con il pensiero – sono gli atti fondamentali del culto.

In un certo senso, ciò che viene sempre offerto nel sacrificio è, in una forma o nell’altra, la vita stessa. Il sacrificio è una celebrazione della vita, un riconoscimento della sua natura divina e imperitura. Nel sacrificio la vita consacrata di un’offerta è liberata come una potenza sacra che stabilisce un legame tra il sacrificatore e la potenza sacra. Attraverso il sacrificio, la vita viene restituita alla sua fonte divina, rigenerando la potenza o la vita di quella fonte; la vita viene alimentata dalla vita. Così la parola del sacrificatore romano al suo dio: “Sii accresciuto (macte) da questa offerta”. Si tratta, tuttavia, di un aumento della potenza sacra che è, in definitiva, vantaggioso per il sacrificatore. In un certo senso, il sacrificio è l’impulso e la garanzia del flusso reciproco della forza vitale divina tra la sua fonte e le sue manifestazioni.

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Spesso l’atto del sacrificio implica la distruzione dell’offerta, ma questa distruzione – sia essa per combustione, macellazione o altro – non è di per sé il sacrificio. L’uccisione di un animale è il mezzo con cui la sua vita consacrata viene “liberata” e quindi messa a disposizione della divinità, e la distruzione di un’offerta alimentare nel fuoco di un altare è il mezzo con cui la divinità riceve l’offerta. Il sacrificio in quanto tale, tuttavia, è l’atto totale dell’offerta e non solo il metodo in cui viene eseguito.

Anche se il significato fondamentale dei riti sacrificali è quello di effettuare una relazione necessaria ed efficace con la potenza sacra e di stabilire l’uomo e il suo mondo nell’ordine sacro, i riti hanno assunto una moltitudine di forme e intenzioni. Le forme fondamentali del sacrificio, tuttavia, sembrano essere un qualche tipo di dono sacrificale o di pasto sacramentale. Il sacrificio come dono può riferirsi sia a un dono che dovrebbe essere seguito da un dono di ritorno (a causa dell’intima relazione che il dono stabilisce) o a un dono che viene offerto in omaggio a un dio senza aspettarsi un ritorno. Il sacrificio come pasto comunitario sacramentale può implicare l’idea del dio come partecipante al pasto o come identico al cibo consumato; può anche implicare l’idea di un pasto rituale in cui o si ripete qualche evento primordiale come la creazione o si rinnova simbolicamente la santificazione del mondo.

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