Le tragedie
Hamlet (c. 1599-1601), invece, sceglie un modello tragico più vicino a quello di Tito Andronico e de La tragedia spagnola di Kyd. Nella forma, Amleto è una tragedia di vendetta. Presenta caratteristiche che si ritrovano anche nel Tito: un protagonista incaricato di vendicare un crimine efferato contro la sua famiglia, un antagonista astuto, l’apparizione del fantasma della persona uccisa, la finzione della follia per allontanare i sospetti del cattivo, il gioco nel gioco come mezzo per mettere alla prova il cattivo, e altro ancora.
Ma cercare questi paragoni significa mettere in evidenza ciò che c’è di straordinario nell’Amleto, perché esso rifiuta di essere solo una tragedia di vendetta. Il protagonista di Shakespeare è unico nel genere per le sue remore morali, e soprattutto perché trova il modo di eseguire il suo terribile comando senza diventare un assassino a sangue freddo. Amleto agisce in modo sanguinario, specialmente quando uccide Polonio, pensando che il vecchio nascosto nelle stanze di Gertrude debba essere il re che Amleto è incaricato di uccidere. L’atto sembra plausibile e fortemente motivato, eppure Amleto vede subito che ha sbagliato. Ha ucciso l’uomo sbagliato, anche se Polonio se l’è cercata con il suo incessante spionaggio. Amleto vede che ha offeso il cielo e che dovrà pagare per il suo atto. Quando, alla fine dell’opera, Amleto incontra il suo destino in un duello con il figlio di Polonio, Laerte, Amleto interpreta la propria tragica storia come una che la Provvidenza ha reso significativa. Mettendo se stesso nelle mani della Provvidenza e credendo devotamente che “C’è una divinità che modella i nostri fini, / li sgrossa come vogliamo” (Atto V, scena 2, righe 10-11), Amleto si trova pronto per una morte che ha tanto desiderato. Trova anche l’opportunità di uccidere Claudio quasi senza premeditazione, spontaneamente, come un atto di rappresaglia per tutto ciò che Claudio ha fatto.
Hamlet trova così un significato tragico nella sua stessa storia. Più in generale, egli ha cercato un senso in dilemmi di ogni tipo: il matrimonio troppo affrettato di sua madre, la debolezza di Ofelia che soccombe alla volontà del padre e del fratello, il suo essere spiato dai suoi ex amici Rosencrantz e Guildenstern, e molto altro. I suoi discorsi sono spesso sconfortanti, inesorabilmente onesti e filosoficamente profondi, mentre riflette sulla natura dell’amicizia, della memoria, dell’attaccamento romantico, dell’amore filiale, della schiavitù sensuale, delle abitudini corrotte (il bere, la lussuria sessuale) e di quasi tutte le fasi dell’esperienza umana.
Un aspetto notevole delle grandi tragedie di Shakespeare (Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth, e soprattutto Antonio e Cleopatra) è che esse procedono attraverso una gamma così sconcertante di emozioni umane, e specialmente le emozioni che sono appropriate agli anni maturi del ciclo umano. Amleto ha 30 anni, si apprende, un’età in cui una persona è portata a percepire che il mondo intorno a sé è “un giardino incolto / che cresce fino a diventare seme. Le cose volgari e grossolane della natura / Lo possiedono soltanto” (Atto I, scena 2, righe 135-137). Shakespeare aveva circa 36 anni quando scrisse questa opera. Otello (c. 1603-04) è incentrato sulla gelosia sessuale nel matrimonio. Re Lear (c. 1605-06) riguarda l’invecchiamento, il conflitto generazionale e i sentimenti di ingratitudine. Macbeth (c. 1606-07) esplora l’ambizione abbastanza folle da uccidere una figura paterna che si mette in mezzo. Antonio e Cleopatra, scritto intorno al 1606-07 quando Shakespeare aveva 42 anni o giù di lì, studia il fenomeno esaltante ma alla fine sconcertante della crisi di mezza età. Shakespeare muove i suoi lettori vicariamente attraverso queste esperienze di vita mentre lui stesso lotta per catturare, in forma tragica, i loro terrori e le loro sfide. In Otello Desdemona è l’unica figlia di Brabantio, un anziano senatore di Venezia, che muore con il cuore spezzato perché sua figlia è fuggita con un uomo dalla pelle scura, più vecchio di lei di molti anni e di un’altra cultura. Con Otello, Desdemona è brevemente felice, nonostante la sua disobbedienza filiale, fino a quando una terribile gelosia sessuale si risveglia in lui, senza altra causa che le sue paure e la sua suscettibilità alle insinuazioni di Iago che è solo “naturale” per Desdemona cercare il piacere erotico con un giovane uomo che condivide le sue origini. Spinto dalla sua paura e dall’odio profondamente irrazionale per le donne e apparentemente diffidente della sua stessa mascolinità, Iago può placare il suo tormento interiore solo persuadendo altri uomini come Otello che il loro inevitabile destino è di essere cornificati. Come tragedia, l’opera esemplifica abilmente il tradizionale modello classico di un uomo buono portato alla disgrazia dall’hamartia, o difetto tragico; come Otello si duole, è uno che ha “amato non saggiamente, ma troppo bene” (Atto V, scena 2, linea 354). Va ricordato, tuttavia, che Shakespeare non doveva alcuna fedeltà a questo modello classico. Amleto, per esempio, è un’opera che non funziona bene in termini aristotelici. La ricerca di un’hamartia aristotelica ha portato troppo spesso alla banale argomentazione che Amleto soffre di malinconia e di una tragica incapacità di agire, mentre una lettura più plausibile dell’opera sostiene che trovare il giusto corso d’azione è altamente problematico per lui e per tutti. Amleto vede esempi da tutte le parti di coloro le cui azioni schiette portano a errori fatali o ad assurde ironie (Laerte, Fortebraccio), e in effetti la sua stessa rapida uccisione dell’uomo che suppone essere Claudio nascosto nelle stanze di sua madre si rivela essere un errore di cui si rende conto che il cielo lo riterrà responsabile.
Figlie e padri sono anche al centro del grande dilemma in Re Lear. In questa configurazione, Shakespeare fa quello che spesso fa nelle sue ultime opere: cancellare la moglie dal quadro, in modo che il padre e la figlia (o le figlie) siano lasciati a trattare tra loro. (Confronta Otello, Il racconto d’inverno, Cimbelino, La tempesta, e forse le circostanze della vita stessa di Shakespeare, in cui le sue relazioni con la figlia Susanna sembrano aver significato di più per lui che il suo matrimonio parzialmente estraniato con Anne). La cacciata di Lear della sua figlia preferita, Cordelia, a causa del suo laconico rifiuto di proclamare l’amore per lui come l’essenza del suo essere, porta su questo vecchio re la terribile punizione di essere sminuito e rifiutato dalle sue ingrate figlie, Goneril e Regan. Contemporaneamente, nella seconda trama dell’opera, il conte di Gloucester commette un errore simile con il suo figlio di buon cuore, Edgar, e si consegna così nelle mani del suo figlio illegittimo intrigante, Edmund. Entrambi questi anziani padri erranti vengono infine nutriti dai leali figli che hanno bandito, ma non prima che l’opera abbia messo alla prova fino al suo limite assoluto l’affermazione che il male può prosperare in un mondo cattivo.
Gli dei sembrano indifferenti, forse del tutto assenti; le suppliche di assistenza a loro rivolte rimangono inascoltate mentre la tempesta della fortuna si abbatte sulla testa di coloro che si sono affidati alle pietà convenzionali. Parte di ciò che è così grande in quest’opera è che il suo mettere alla prova i personaggi principali richiede loro di cercare risposte filosofiche che possano armare il cuore risoluto contro l’ingratitudine e la sfortuna, sottolineando costantemente che la vita non deve nulla a nessuno. Le consolazioni della filosofia preziosamente scoperte da Edgar e Cordelia sono quelle che non si basano su supposti dei ma su una forza morale interiore che richiede di essere caritatevoli e onesti perché altrimenti la vita è mostruosa e subumana. L’opera esige prezzi terribili da coloro che perseverano nella bontà, ma lascia loro e il lettore, o il pubblico, con la rassicurazione che è semplicemente meglio essere una Cordelia che essere una Goneril, essere un Edgar che essere un Edmund.
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Macbeth è per certi versi la tragedia più sconvolgente di Shakespeare, perché invita all’esame intenso del cuore di un uomo che è ben intenzionato nella maggior parte dei modi ma che scopre di non poter resistere alla tentazione di raggiungere il potere a qualsiasi costo. Macbeth è una persona sensibile, persino poetica, e come tale comprende con spaventosa chiarezza la posta in gioco che è coinvolta nel suo contemplato atto di omicidio. Duncan è un re virtuoso e il suo ospite. L’atto è un regicidio e un omicidio e una violazione dei sacri obblighi dell’ospitalità. Macbeth sa che le virtù di Duncan, come gli angeli, “dalla lingua di tromba”, supplicheranno contro “la profonda dannazione del suo allontanamento” (Atto I, scena 7, righe 19-20). L’unico fattore che pesa dall’altra parte è l’ambizione personale, che Macbeth capisce essere una mancanza morale. La domanda sul perché egli proceda all’omicidio trova in parte risposta nelle insidiose tentazioni delle tre Sorelle Strane, che percepiscono la vulnerabilità di Macbeth alle loro profezie, e nella forza terrificante di sua moglie, che lo spinge all’omicidio descrivendo la sua riluttanza come mancanza di umanità. In definitiva, però, la responsabilità è di Macbeth. Il suo crollo dell’integrità morale affronta il pubblico e forse lo coinvolge. La lealtà e la decenza di personaggi come Macduff difficilmente compensano ciò che è così dolorosamente debole nel protagonista dell’opera.
Antony and Cleopatra si avvicina alla fragilità umana in termini che sono meno spiritualmente terrificanti. La storia degli amanti è certamente una storia di fallimento mondano. Le Vite di Plutarco hanno dato a Shakespeare la lezione di un generale coraggioso che ha perso la sua reputazione e il suo senso di autostima a causa della sua infatuazione per una donna certamente attraente ma comunque pericolosa. Shakespeare non cambia nessuna delle circostanze: Antonio odia se stesso per aver bighellonato in Egitto con Cleopatra, accetta di sposarsi con la sorella di Ottavio Cesare, Ottavia, come modo per recuperare il suo status nel triumvirato romano, alla fine tradisce Ottavia, perde la battaglia di Azio a causa della sua attrazione fatale per Cleopatra, e muore in Egitto come un guerriero sconfitto e vecchio. Shakespeare aggiunge a questa narrazione un avvincente ritratto della crisi di mezza età. Antonio è profondamente ansioso per la sua perdita di potenza sessuale e di posizione nel mondo degli affari. La sua vita amorosa in Egitto è chiaramente un tentativo di affermare e recuperare il suo potere maschile in declino.
Tuttavia il modello romano non è nell’opera di Shakespeare la scelta inattaccabilmente virtuosa che è in Plutarco. In Antonio e Cleopatra il comportamento romano promuove l’attenzione al dovere e alla realizzazione terrena, ma, come incarnato dal giovane Ottavio, è anche ossessivamente maschile e cinico nei confronti delle donne. Ottavio è intenzionato a catturare Cleopatra e a riportarla in trionfo a Roma, cioè a ingabbiare la donna indisciplinata e a metterla sotto il controllo maschile. Quando Cleopatra percepisce questo obiettivo, sceglie un nobile suicidio piuttosto che l’umiliazione di un maschio patriarcale. Nel suo suicidio, Cleopatra afferma di aver chiamato “il grande asino di Cesare / Senza controllo” (Atto V, scena 2, righe 307-308). Molto da preferire è il fugace sogno di grandezza con Antonio, entrambi liberi, divini, come Iside e Osiride, immortalati come amanti eroici anche se le reali circostanze delle loro vite erano spesso deludenti e persino pacchiane. La visione in questa tragedia è deliberatamente instabile, ma nella sua massima etereità incoraggia una visione della grandezza umana che è lontana dal male che corrompe l’anima di Macbeth o Re Lear.
Anche due tragedie tardive scelgono il mondo classico antico come ambientazione, ma lo fanno in un modo profondamente scoraggiante. Shakespeare sembra essersi preoccupato molto dell’ingratitudine e dell’avidità umana in questi anni. Timone di Atene (c. 1605-08), probabilmente un’opera incompiuta e forse mai prodotta, ci mostra inizialmente un uomo prospero favoleggiato per la sua generosità. Quando scopre di aver superato i suoi mezzi, si rivolge ai suoi apparenti amici per i tipi di assistenza che ha dato loro, solo per scoprire che la loro memoria è corta. Ritiratosi in un amaro isolamento, Timon inveisce contro tutta l’umanità e rifiuta ogni sorta di consolazione, anche quella di una compagnia ben intenzionata e di una simpatia da parte di un ex servitore. Muore in isolamento. L’amarezza non alleviata di questo racconto è solo parzialmente migliorata dalla storia del capitano militare Alcibiade, che è stato anche lui oggetto dell’ingratitudine e della dimenticanza ateniese, ma che alla fine riesce a riaffermare la sua autorità. Alcibiade decide di fare qualche accordo con la misera condizione dell’umanità; Timone non ne vuole sapere. Raramente è stata scritta un’opera teatrale più sgradevolmente amareggiata.
Coriolano (1608 circa) ritrae in modo simile le risposte ingrate di una città verso il suo eroe militare. Il problema è complicato dal fatto che Coriolano, spinto da sua madre e dai suoi alleati conservatori, intraprende un ruolo politico a Roma per il quale non è adatto. I suoi amici lo esortano a trattenere i suoi discorsi intemperanti fino a quando non sarà votato alla carica, ma Coriolano è troppo schietto per avere tatto in questo modo. Il suo disprezzo per i plebei e i loro capi politici, i tribuni, è spietato. La sua filosofia politica, pur essendo implacabilmente aristocratica e snob, è coerente e teoricamente sofisticata; i cittadini sono, come lui sostiene, incapaci di governarsi con giudizio. Eppure la sua furia non fa che peggiorare le cose e lo porta a un esilio dal quale ritorna per conquistare la sua stessa città, in combutta con il suo vecchio nemico e amico, Aufidio. Quando sua madre esce per la città a supplicare per la sua vita e quella di altri romani, lui cede e quindi cade nella sconfitta come una sorta di figlio di mamma, incapace di affermare il proprio senso di sé. Come tragedia, Coriolano è di nuovo amaro, satirico, che termina con la sconfitta e l’umiliazione. È un’opera immensamente potente, e cattura uno stato d’animo filosofico di nichilismo e amarezza che aleggia sugli scritti di Shakespeare in questi anni del primo decennio del 1600.
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