Quando si tratta del lontano passato, è spesso difficile distinguere il fatto dalla finzione. Bisogna fare affidamento sulle fonti, e più lontano nel tempo è una persona o un evento particolare, più difficile diventa capire come fosse quella persona o cosa sia realmente accaduto.
Gli antichi greci, così come (più tardi) i romani, consideravano la guerra di Troia un evento storico che si è svolto più o meno secondo le linee di ciò che è stato dettagliato nella poesia epica. Si pensava che eroi come Achille ed Ettore fossero realmente esistiti. Quando Alessandro Magno attraversò l’Asia Minore, fece una visita a quella che si pensava fosse la tomba di Achille. I romani facevano risalire la loro discendenza all’eroe troiano Enea.
Un altro esempio è la convinzione degli antichi ateniesi che il loro eroe Teseo fosse realmente esistito e vissuto in un’epoca precedente allo scoppio della guerra di Troia; in epoca classica, quelle che si credeva fossero le sue ossa furono addirittura recuperate e riseppellite ad Atene. E altri esempi potrebbero essere aggiunti quasi all’infinito.
Storia antica
Erodoto di Alicarnasso, vissuto nel V secolo a.C., è ampiamente accreditato come il primo storico come noi intendiamo il termine: una persona che cerca di capire il passato attraverso una ricerca rigorosa. Tuttavia, Erodoto è anche considerato come l’ultimo grande logografo, o scrittore/raccoglitore di storie (logoi). Nel suo libro, egli cerca di contestualizzare le guerre greco-persiane dell’inizio del V secolo a.C. scavando nel passato sia dei greci che dei persiani, e descrivendo i costumi e le culture dei popoli che vivevano dentro e fuori i confini dell’impero persiano.
Il testo di Erodoto si legge meno come quello che considereremmo un vero e proprio testo di storia, e più come gli scritti di un buon giornalista, che è andato nei vari luoghi descritti nel suo libro e ha interrogato le persone che erano testimoni oculari degli eventi che descrive. Naturalmente, non aveva molte fonti scritte su cui basare il suo lavoro: si basa soprattutto su resoconti di prima, seconda o anche terza mano di altre persone, che gli hanno raccontato le loro storie (e i loro pettegolezzi) faccia a faccia.
Il risultato è che il racconto di Erodoto è più attendibile quanto più gli eventi sono vicini al tempo di Erodoto stesso. Più gli eventi descritti sono lontani nel tempo, più dovremmo essere scettici. In generale, il testo di Erodoto va benissimo per la maggior parte degli avvenimenti dal 530 a.C. circa in poi, ma più ci spostiamo indietro nel tempo, più fatti e finzione si intrecciano, fino ad arrivare all’epoca degli eroi leggendari e della guerra di Troia.
Naturalmente, un problema è che Erodoto è spesso l’unica fonte che abbiamo a disposizione, il che rende difficile verificare il suo racconto. Come regola generale, dovremmo trattare qualsiasi cosa un antico affermi di essere accaduto con un granello di sale tanto più grande quanto più l’autore è lontano nel tempo dagli eventi che pretende di descrivere, specialmente se non ci sono altre fonti scritte più antiche o disponibili per sostenere quelle affermazioni.
La leggenda di Orazio Cocle
Se la storia greca è avvolta in una nebbia che può essere perforata in modo affidabile solo grazie agli sforzi degli archeologi, lo stesso vale anche per la prima storia di Roma. Lo storico Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), normalmente indicato in inglese come Livio, scrisse un’imponente storia di Roma chiamata Ab Urbe Condita (“Dalla fondazione della città”). Forse più del pioniere Erodoto, Livio trattava le sue fonti con circospezione e si preoccupava di indicare se era in grado di verificare una particolare storia.
Una delle storie più interessanti della prima Roma riguarda un attacco di Lars Porsenna della città etrusca di Clusium (la moderna Chiusi in Toscana) contro Roma per installarvi un nuovo re etrusco. Livio si premura di dire che gli eventi accaddero nell’anno in cui Publio Valerio e Tito Lucrezio erano consoli; con Valerio che servì addirittura per la seconda volta (Livio 2.9), ovvero intorno al 510-507 a.C. La cronologia della prima Roma è un argomento complesso che non approfondirò qui. Publio Valerio, almeno, è attestato dall’epigrafia.
Come riporta Livio, i Romani fuggirono tutti nella loro città quando arrivarono gli Etruschi. La città era protetta da mura e dal fiume Tevere. Mostrare se Roma avesse effettivamente un circuito di mura intorno al 500 a.C. è una questione importante negli studi sugli antichi romani. C’era solo un punto vulnerabile, ma un uomo coraggioso si fece avanti per difenderlo. Come racconta Livio (2.10):
Il ponte di palafitte offriva quasi un ingresso al nemico, se non fosse stato per un uomo, Orazio Cocle; egli era il baluardo di difesa da cui quel giorno dipendeva la fortuna della città di Roma. Per caso era di guardia al ponte quando il Gianicolo fu catturato da un improvviso attacco del nemico. Li vide mentre scendevano in corsa dal Gianicolo, mentre i suoi si comportavano come una folla impaurita, gettando via le armi e abbandonando i ranghi. Prendendo prima l’uno e poi l’altro, bloccandogli la strada e incitandoli ad ascoltare, chiamò gli dei e gli uomini a testimoniare che se abbandonavano il loro posto era vano fuggire; una volta che avessero lasciato un passaggio nelle loro retrovie attraverso il ponte, ci sarebbero stati presto più nemici sul Palatino e sul Campidoglio che sul Gianicolo. Perciò li avvertì e ordinò loro di abbattere il ponte con l’acciaio, con il fuoco, con qualsiasi strumento a loro disposizione; e promise che avrebbe ricevuto lui stesso l’attacco del nemico, per quanto potesse essere sopportato da un solo corpo.
Horatius Cocles (“One-Eyed”) uscì a grandi passi alla testa del ponte. Altri due romani – Spurius Larcius e Titus Herminius – si unirono a lui nei suoi sforzi per tenere a bada gli etruschi. Quando il combattimento divenne troppo duro, Orazio disse ai suoi due compagni di salvarsi. A questo punto, del ponte era rimasto ben poco. Con un linguaggio che ricorda l’epica antica, Livio descrive come Orazio prese i giavellotti etruschi sul suo scudo mentre l’esercito di Porsenna ancora una volta scendeva su di lui.
Finalmente, il ponte crollò. A quel punto,
Cocle gridò: “O Padre Tiberino, ti invoco solennemente; ricevi queste armi e questo soldato con flusso propizio!” Così pregando, tutto armato com’era, si tuffò nel fiume, e sotto una pioggia di missili attraversò illeso i suoi compagni, avendo dato una prova di valore che era destinata a ottenere più fama che credito presso i posteri.
E in quella frase finale (“più fama che credito”) Livio tradisce che ha i suoi dubbi sul fatto che questa storia sia o meno più di una piacevole finzione. Il fatto che faccia riferimento ai posteri suggerisce che molti consideravano improbabile che Orazio, con o senza i suoi due compagni, sarebbe stato in grado di respingere l’intero esercito di Porsenna e uscirne vivo! (Per inciso, Polibio 6.55 nota che Orazio morì nel fiume.)
Naturalmente, le storie non devono essere vere per essere significative. Non è necessario che Livio creda che tre uomini possano difendere un ponte contro un intero esercito, per non parlare di un singolo individuo, e vivere per raccontarlo. Ma la storia è potente e ispiratrice: nel suo racconto, altri potrebbero trarre coraggio.
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